2014/2
Gennaio, in Australia, è il cuore dell’estate, e il villaggio del Campus è quasi deserto. Circondato dalla quiete, io sono l’unico col cuore in gola. Mi sveglio, sento voci al piano di sotto, e mi riempio di paranoia: nella confusione della veglia, per qualche secondo, immagino scene da film d’azione: io che mi nascondo negli angoli, esco dall’ombra e taglio la gola ai sicari.
Questo perché sono in subaffitto. Un mio ex-coinquilino mi ha lasciato la sua stanza dicendomi che avrei trovato la chiave sotto il tappeto. Arrivato all’alba, dopo un viaggio di 25 ore, mi accorgo che non c’è nessun tappeto. Da lì in poi rimbalzo tra il silenzio estivo del villaggio e la mia paranoia: l’amministrazione è incredibilmente aggressiva, cercano di spillarti soldi per qualsiasi scusa. Non oso immaginare la multa che beccherei se scoprissero che sono senza contratto; per vari scherzi del destino, le chiavi elettroniche che riesco a rimediare sono tutte difettose e io spendo lunghissimi minuti nell’ufficio dei manager. Loro sono gentili, piacioni, mi trattengono con convenevoli e chiacchiere amabili. Io sudo freddo. Sembra il posto di blocco in un thriller, e io ho un corpo nel bagagliaio.
Mi sto convincendo che il mondo vuole dirmi qualcosa, mandarmi messaggi, avvisi, segnali. Scopro il Banco del Mutuo Soccorso, e due giorni dopo muore Francesco di Giacomo. Mi consolo col disco di Actress: almeno lui, a giudicare dalla musica, sembra già essere un fantasma.
L’ultima fase della transizione la passo in una pensione per spazzatura bianca. La sera il padrone, una specie di Hulk Hogan imbalsamato, ci prova con due turiste agitando una bottiglia di whiskey. Ho scoperto che nei momenti di passaggio ho bisogno di rintanarmi dentro il rocksteady. Non è una questione di ritmo, ma di melodia e di registrazioni sbiadite: credo sia la mia via al pop. Perfidia di Phyllis Dillon è la mia canzone del 2014.
Qualche giorno dopo sono di nuovo a Tunisi, per la prima volta dal 2011.
L’inizio è spaventoso. Hanno ragione quegli scoreggioni che infilo nella bibliografia della Tesi: la struttura sociale è una cosa che senti col corpo. Il modo di camminare, chi guardare negli occhi, gli odori, la voce del tizio che cerca di adescarti in quanto gonzo occidentale, le api che brulicano fra i dolci dei mercatini, la stanza un metro per due, la doccia fredda. L’inizio è spaventoso e ho bisogno di un’incubatrice, musica dentro la quale ricostruirmi routine che la mia vita quotidiana non mi permette. Soprattutto Neneh Cherry, ma anche Havah, Pyramid Vritra, il disco di Fredo Viola (ancora una volta mille grazie a Pomini).
Non importa dove ti giri, se stai a Tunisi ascolterai Houmani di Hamzaoui Med Amine e Kafon una quindicina di volte al giorno. La Tunisia ha 10 milioni di abitanti; il video ha 15 milioni di visualizzazioni. In questi anni il rap ha assunto proporzioni ridicole; soprattutto questa versione del rap – abbracciata da un lato a una specie di reggae in 2D e dall’altro a un feeling chaabi [letteralmente “popolare” – folk senza la spocchia] – che lo rende un genere naturale da ascoltare attraverso la radiolina di un chiosco o lungo un viaggio in taxi.
Se però chiedi in giro nella scena hip hop, il nome che ricorre ossessivamente è quello di un ragazzino che, mi dicono, è arrogante e può permetterselo, perché è un genio. Si chiama Katybon. Lo conosco qualche tempo dopo nell’atelier di Zinga, un DJ e artista visuale col quale sta mettendo su un progetto. Provano tutti i giorni, preferiscono ponderare prima di pubblicare alcunché online. Ascolto qualcosa nello studio – è roba che sta agli antipodi di Kafon. C’è del reggae, ma è tutto scurissimo, pieno di grime e della bass music che è il background di Zinga – tra i membri principali, assieme a Ogra, del collettivo Waveform: avendo a che fare con questa gente io, ragazzo di campagna, per la prima volta nella vita sento di toccare con mano la coolness senza esserne disgustato.
A Sfax sta un tizio che, invece, da tutta questa roba sarebbe disgustato. Gira con il nome Fusam, è pressoché un solitario. Soffre l’isolamento della Tunisia, l’impermeabilità delle sue frontiere per un artista non ufficialmente riconosciuto. Mi dice: “Mio padre mi ha dato vita qui, e io non merito di essere nato qui. Allo stesso modo, sento che la mia musica non merita il fatto di essere nata qui”. Nel frattempo, compone schianti frontali tra IDM e metal estremo.
Conosco altra gente “intrappolata” in Tunisia, come l’uomo dietro il gruppo death metal Brood of Hatred e i thrash metallers Persona. Conosco ricercatori espatriati, DJ lesbiche, lettori di tarocchi, pilote di droni, metallari convertiti al cattolicesimo. Mi diverto un sacco.
D’estate – l’estate dell’emisfero nord – passo da Francia e Portogallo, e mi godo qualche settimana di stabilità inutile in Sicilia, indeciso se adorare o detestare Fatima al Qadiri. Visito il museo a cielo aperto, disperato, di Gibellina con in testa una canzone che non se ne vuole andare. In una parentesi a Roma incontro persone che avevo lasciato a Siena, tra cui – dopo un anno e mezzo – l’altro redattore di mestolate. Torno in Australia.
Nuova transizione, nuovo momento rocksteady. Riesco a mettere le mani sul disco degli Antemasque: sono fermo al 2000, quattordici anni fa. E’ un disco che amo e di cui mi vergogno, e più me ne vergogno più lo amo. Nel frattempo ho fatto trent’anni.
I trent’anni mi hanno portato dilemmi che non posso scrivere su Internet. Roba grossissima, da cortocircuito morale. Ho letto cose, non troppe – almeno, L’Armata dei sonnambuli. Ho assecondato, in un ostello di Melbourne, i deliri di uno psicopatico convinto che Julio Iglesias sarebbe venuto a prenderlo l’indomani per sposarlo. Ho viaggiato con “Cystema solari” di Uochi Toki + Nadja. Ho scoperto diverse altre cose: ad esempio che non riesco a trovare conclusioni. Non ci riesco nella mia vita, nelle relazioni, nella frase del secondo paragrafo, in questo articolo.
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