Intervista a Salmo (specchietto per le allodole)

10Nov18

In occasione dell’uscita del nuovo disco di Salmo, “Playlist”, pubblichiamo le domande per un’intervista che gli abbiamo proposto in occasione di “Midnite” (2013), mai andata in porto. Bella pensata, eh?

Comunque, siamo contenti che Salmo abbia finalmente fatto coming out, nel momento storico in cui Beto O’Rourke si prospetta come sfidante di Trump alle prossime presidenziali. Finalmente l’hardcore americano degli anni ’90 che non si è mai cacato nessuno avrà rilevanza, ci prenderemo il paese nelle elezioni contro Kanye West.

salmo-playlist

La sensazione più forte che provo ascoltandoti è di sentire lo «spirito del tempo»: mi sembra che nei tuoi pezzi tu ti sforzi di tratteggiare un’epoca, e di parlarne direttamente a un pubblico – specie  i tuoi ascoltatori più giovani – che  da te vuole essere narrato e rappresentato (lo dici in S.A.L.M.O.: «Loro credono solo ai cantanti»).
Ecco, per certi versi si tratta di una sensazione negativa. A 29 anni sento di stare abbandonando il presente che tu racconti. Di più: sento che non mi appartiene. Non mi appartiene il mondo dei nativi digitali, non mi appartiene la psicosi, l’adrenalina e la violenza che fotografi nella tua musica. Visto che siamo praticamente coetanei, e che tu fai musica da una vita, ti chiedo quale sia stato il tuo impatto con questo presente che pervade i tuoi pezzi, come sia stato entrarci, e come ti senti a raccontarlo – tu che hai vissuto un mondo pre-social network, pre-dubstep, cazzi e mazzi – ai suoi «abitanti nativi»

Stringendo un po’ il campo della domanda precedente: nei tuoi pezzi c’è spesso una tensione tra la freddezza del mondo digitale e una violenza sottile che sembra emergere e pervadere tutto; tra la mancanza di contatto di persone dietro schermi, che canti in Russel Crowe e il sangue che è estremizzazione del contatto stesso, tra virtuale e drammaticamente reale, tra «Death» e «USB». Eppure questa violenza ha raramente un nome e un volto (nell’ultimo disco mi viene in mente giusto Ordinaria follia); spesso si tratta di pura spettacolarizzazione horror/fantascientifica, o di una specie di attitudine che si muove nel fondo dei mondi che racconti. Come la vedi questa coesistenza tra un mondo sempre più virtuale e distaccato e della violenza che sembra muovere la tua arte, e che sembra affascinare le persone «connesse», e quindi apparentemente distaccate, che ci si rappresentano?

La violenza. Il fatto che il rap sia di nuovo grosso sta evocando il solito panico e dubbi sulla «responsabilità» di chi canta di droga troie eccetera. Spesso le risposte dei rapper sono due, complementari: «l’hip hop racconta storie, non c’è niente di vero»/«l’hip hop racconta puramente la realtà, non prende posizione». Il problema che io, personalmente, vedo, non è quello del rapporto tra realtà e fantasia, ma quello dell’autocompiacimento e della responsabilità. Quanto a lungo si può cantare il male restando immune dal suo fascino, senza fare il suo gioco? Non so, tu come la vedi? Dove pensi si debba posizionare il senso di responsabilità di un rapper in rapporto alle sue storie?

Spesso ti viene chiesto del tuo passato nel punk e nel metal. Cosa ti va di portare da quel mondo dentro il rap, a parte l’impatto musicale e tutti i cambiamenti che si possono sperimentare nei live? E cosa sei contento di aver abbandonato quando hai lasciato il rock e sei tornato al rap?

Qualche mese fa hai rilasciato un’intervista a Repubblica in cui, tra l’altro, hai detto «la gavetta significa fare i clic». Ora, non so se il giornalista ha frainteso; comunque ho letto più di una persona scandalizzata da questo commento. Anch’io, a caldo, cresciuto con una concezione ormai alquanto invecchiata della gavetta stessa, dell’underground, del DIY ecc, mi immagino qualcosa di completamente diverso: prendersi un furgone e andare in giro a suonare, fare amicizia con altri gruppi, cose così – che tu hai fatto per anni prima di diventare famoso. E poi, in fondo, i clic li fanno anche Diprè e Giuseppe Simone. Beh, visto che tu hai vissuto a cavallo di questa rivoluzione nel mondo della musica, ti chiedo: come si fa a riformulare un’etica indipendente, o quantomeno artisticamente «integra», dentro questa trasformazione dell’industria musicale, in un’epoca che non è più gli anni Ottanta dell’hc americano? Cosa accettare, cosa rifiutare?

In che direzione vedi il tuo futuro musicale ? Credi che ti stancherai? Da che parte ti giri quando cerchi la forza di dire qualcosa di significativo al tuo pubblico, in sostanza ?



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