Intervista ad Andrea Pomini

31Mar13

cagliari

Per presentare Andrea Pomini ci vorrebbe un articolo a parte. Colonna della scena punk/hc anni Novanta con la sua fanzine AbBestia! e le sue band (Fichissimi, Encore Fou e, in seguito, la prima incarnazione dei Disco Drive); discografico con Love Boat; giornalista musicale per Rumore, Repubblica, Dj Mag  e altre testate; biografo dei Massimo Volume nel libro “Tutto qui” (edito da Arcana); Dj, da solo (col nome di Repeater) e in coppia con Giorgio Valletta (come Computer says no); blogger su Soul Food; osservatore polemico dell’attualità non soltanto sonora.

L’intervista è lunga, mettetevi comodi.

1. Imperialismo culturale, World Music, contaminazioni, collezionismo.

La voglia di fare questa intervista/conversazione mi è venuta a Novembre, dopo aver letto su Rumore il tuo articolo Mondo Fuzz. Incroci psichedelici alla periferia dell’Impero [un reportage che racconta il rock psichedelico anni Settanta fuori da Europa e Stati Uniti, attaccando sia la definizione classica di “World Music” sia molte dinamiche (spesso inevitabili) della storiografia rock, che finisce per rispecchiare i rapporti di forza tra Occidente e resto del mondo]. In quel periodo stavo leggendo “Retromania”, in cui Simon Reynolds accenna a nuove nicchie discografiche, quali il “West African psych” e gli “imitatori etiopi di James Brown”, rese cool da “etichette, giornalisti, e DJ”. Mi sei venuto in mente tu, che sei tutte queste cose insieme. Da un lato sei continuamente impegnato a documentare simili reperti, dall’altro sei un elemento attivo del dance floor mondiale, per eccellenza luogo dell’innovazione e del rimescolamento…

Io “Retromania” non l’ho letto, per cui l’analisi che posso fare è monca e si basa su quello che dici tu. Intuisco che queste definizioni di Reynolds non siano particolarmente lusinghiere…

Sì, secondo me è sottinteso che ci veda una sorta di necrofilia…

Definire la musica etiope degli anni ’60/’70 come “imitazione etiope di James Brown” mi sembra estremamente riduttivo: c’è sicuramente l’influenza di James Brown, ma c’è anche molto altro. È una musica unica, che riflette il percorso dell’Etiopia stessa, che è – a parte quei pochi anni di occupazione italiana – uno dei più antichi stati indipendenti al mondo. Reynolds secondo me esagera.

Nell’articolo, mi sono semplicemente chiesto: “Non è che la nostra visione su questo argomento è condizionata dal fatto che noi lo vediamo da qui?”. Ovviamente, la visione di una cosa è sempre condizionata da dove la guardi. Però chi ha detto che i parametri debbano essere quelli della storia della musica come noi l’abbiamo conosciuta, come ci è stata insegnata, e non altri? Mi rendo conto che la maggior parte di queste ristampe sono in realtà ibridazioni tra stili cosiddetti occidentali – anche se sul termine “occidentale” ci sarebbe da aprire tutta un’altra parentesi – e stili locali, per cui sicuramente c’è l’influenza della musica come noi la conosciamo. Però mi sono chiesto: “Perché questi qui non li conosce nessuno, sono considerati folklore, nicchia per i turisti delle ristampe che vogliono farlo strano?”.

È l’impostazione di Reynolds, che sembra vedere tutto questo come una “macchina del cool”: nessuno si poneva il problema che simili musiche esistessero prima che qualcuno le rendesse cool. C’è sotto un giudizio di staticità: queste ristampe sarebbero in fondo un semplice bene di consumo.

Lo capisco, ma anche parlare per 50 anni solo di musica angloamericana è renderla cool. È il cool portato al massimo. Sono 50 anni che per musica s’intende soltanto la roba inglese/americana, tanto che all’estero anche la musica italiana è nel settore “World Music”… Il “World” tutto insieme è più grande di Inghilterra e America! Dipende tutto da dove guardi. Certo, in questo settore delle ristampe c’è sicuramente un gusto per l’esotico che va al di là dell’effettivo valore del disco. Trovo gruppi funk/psichedelici iraniani degli anni Sessanta, è fighissimo, chi se ne frega poi di ascoltarli veramente? Ovviamente è più esotico e allettante che scoprire un gruppo funk/psichedelico della Carolina del Sud, o del Dorset. Sicuramente c’è anche un discorso di moda, di tendenza. Detto questo, io trovo sia un bene che vengano fuori tutte queste cose.

Per quanto riguarda l’aspetto del rinnovamento, del guardare indietro e non avanti, non so. Da un lato tantissimi di questi artisti erano incredibilmente avanti; il problema è che, siccome nessuno li conosceva al di fuori del Paese, e a volte anche dentro, nessuno è andato avanti da quei dischi, all’epoca.

Esatto, stavo per chiederti questo. Quanti di questi dischi hanno fatto scuola? Era “musica di comunità”, secondo te? Si impone anche una considerazione sociale. Personalmente ho fatto ricerche in Tunisia, tra i metallari. In quella scena il ritornello era “tutti i metallari sono borghesi”. Non so se convenga chiamare in causa il concetto di popolo, ma ti chiedo: fino a che punto queste musiche erano lo specchio di una realtà culturale condivisa, e non il trastullo di persone che potevano accedere a merci?

Da quello che ho potuto capire leggendo i libretti dei dischi, informandomi, cercando in rete, sono entrambe le cose. Dipende dai casi. Uno dei maggiori “imitatori etiopi di James Brown”, Mahmoud Ahmed, è tutt’ora uno dei grandi della musica etiopica di tutti i tempi. Ha la statura che può avere un Adriano Celentano nella musica italiana, per dire. Fa tour presso le comunità etiopi in Europa e America, e i suoi concerti sono happening di tre-quattro ore continuamente interrotti da gente che vuole farsi foto con lui, salutarlo, parlargli dei parenti a casa. Veri happening da comunità migrante che incontra i personaggi popolari del suo Paese. Allo stesso tempo, altre cose portate a galla di recente erano nicchia ed erano sicuramente fatte da gente che aveva accesso a fondi, cultura, materiali e tecniche che solo chi era ricco poteva permettersi.

Bisogna però aggiungere che spesso erano storie di gente che rischiava. Fare queste cose voleva spesso dire mettersi contro dei regimi. Per esempio, la raccolta indonesiana “Those shocking skaking days” di cui parlo nell’articolo: molti di questi gruppi hanno faticato a fare quello che volevano fare, molto più di un capellone italiano che al massimo si ritrovava il padre che gli diceva “tagliati i capelli”. Non so, bisognerebbe saperne di più, parlare con le persone sul posto o con quelli che sono venuti qui… Magari se in Indonesia salgo su un taxi e chiedo al tassista degli Shark Move lui mi dice “e chi cazzo sono?”. Ma forse accadrebbe lo stesso se chiedessi a un tassista romano degli Area…

Non faccio fatica a credere che in Tunisia i metallari siano borghesi. Secondo me l’equivalente del Metal in Tunisia può essere la musica underground “indipendente” in Italia. E chi ascolta indie in Italia – e per indie intendo uno spettro vastissimo di musica, che comprende anche le ristampe di cui parliamo – è assolutamente borghese. Il “popolo” in Italia ascolta altre cose, ascolta il cantante melodico, come penso accada in Tunisia. Negli anni Sessanta, probabilmente, l’aria nuova, il fatto che un altro genere di artisti fossero icone globali, poteva far sì che il rock, come oggi è il pop, non fosse una musica di nicchia.

Non c’era neanche una distinzione così grossa tra Mainstream e Underground…

Esatto. Sul rinnovamento comunque ho notato questo: le ristampe ci sono sempre state, anche quella di roba africana funk/psichedelica; il problema è che erano confezionate diversamente. Erano ristampe pensate per un pubblico che già ascoltava World Music. Quello che cambia è che ora sono rese cool anche da come vengono confezionate, dai canali in cui circolano e da quanto l’etichetta che le fa è considerata cool. L’ascesa della Soul Jazz è il punto di svolta: da lì le ristampe diventano improvvisamente modernissime, diventano come dischi nuovi, sia perché a monte si tratta spesso di materiale che nessuno aveva mai ascoltato, sia soprattutto perché vengono confezionate mettendo insieme cose che prima non erano mai state messe insieme in quel modo, raccontando delle scene e creandone di nuove, con grafiche accattivanti. Penso a raccolte come “In the beginning there was rhythm”, che sostanzialmente è una delle pietre fondanti di tutto il revival post-punk, o punk-funk, degli anni Duemila. Anche con l’aiuto di Internet, cominciano a nascere gruppi la cui tavolozza è improvvisamente enorme. Io penso che i gruppi moderni risentano molto di questo potenziale e abbiano l’apertura mentale che questo porta, per cui puoi ascoltare il disco del gruppo indie e poi il disco del suonatore egiziano di oud, e farne qualcosa di tuo. Detto questo, c’è sicuramente chi ascolta il suonatore egiziano di oud e lo include nella musica del suo gruppo e si sente il più figo del mondo per questo. Penso sia normale. Ma almeno si tratta di qualcosa di nuovo, di fresco.

C’è anche l’elemento della “seconda mano”, nel senso che, oltre ai gruppi post-punk interessati veramente ai gruppi dal resto del mondo, c’è anche la seconda generazione che si rifà solamente ad altri gruppi post-punk…

Ma queste sono dinamiche di ogni genere! Prima facevi accenno alla dance. La dance, secondo me, è un mondo in cui – molto più che nel rock, anche se io non amo dividerli – c’è molta più apertura alla contaminazione con l’esotico. Anche per vie facili e un po’ paracule: prendi un beat dritto, ci ficchi sopra una linea di voce da un brano latinoamericano degli anni Sessanta, il pezzo è fatto e viene ballato per tutta l’estate. Però è in generale un mondo più attento. Penso alle cose che sta facendo Caribou come Daphni, ad esempio, molto attente a ritmi e sonorità africane (soprattutto west-africane). Trovo sia così anche perché molte cose di funk africano hanno delle caratteristiche di suono, di struttura, di induzione alla trance che sono veramente vicine alla house e alla musica da ballo nella sua accezione più nobile e pura.

A questo proposito, penso che ci sia una certa trasversalità sociale, musicale e temporale da questo punto di vista. Sono propenso a credere che le musiche basate sui beat, le musiche da ballo, l’hip-hop, il reggae, abbiano una maggior “diffusione sociale” nei paesi esterni a Europa e Stati Uniti. Quello che si balla e si canta per strada, secondo te, che valenza ha, rispetto alla musica delle raccolte citate sopra? La musica di strada, la “musica di comunità” che vive, permea verso di noi, verso l’Occidente, verso il dance floor ecc?

L’impressione che ho io è che i legami con tutta questa valanga di ristampe siano pochissimi se non nessuno, e che questa musica che citi segua le strade del pop globale, come in ogni paese del mondo: beat presi dall’hip hop, voce r’n’b, voce maschile rappata, quella struttura che è un po’ la stessa nella musica hip hop in tutto il mondo. Ovviamente colorata con le caratteristiche dei diversi luoghi, per cui il cantante pop italiano farà un ammiccamento al bel canto, mentre quello del Ghana magari ammiccherà ai rapper americani, o avrà qualche chitarrina highlife dentro. Poi, per noi che ci interessiamo di queste cose, sarà sempre più interessante quello del Ghana rispetto al neomelodico napoletano…

Anche l’estetica tamarra è un po’ la stessa…

L’estetica è assolutamente tamarra nel pop di strada di qualunque Paese: le vie che portano al successo sono quelle. La cosa positiva è che in luoghi fino ad adesso tagliati fuori dai giri della musica “interessante” (anche se tutta la musica è interessante), qualcosa comincia a muoversi. O meglio: grazie alla rete noi cominciamo ad accorgerci di cosa accade in quei Paesi, che a loro volta, grazie ai mezzi tecnologici a loro disposizione, cominciano a fare delle cose originali e soprattutto a farsi notare. Penso a fenomeni che sono partiti da ghetti periferici e sono diventati importanti, come il baile funk brasiliano, la house sudafricana, o tutti i rapper che fanno cose legate alla realtà nella quale vivono, dalla Palestina al Sudamerica, o tutte le contaminazioni tra cumbia ed elettronica che vengono dal Sudamerica stesso. C’è più possibilità di sentire musica non mirata al commercio anche da Paesi che fino a oggi erano noti solo per lo sporadico fenomeno pop o per la classica World Music – termine che rigetto completamente e che cerco di evitare, come cerco di evitare il termine “Occidente” che citavamo prima. Sono, secondo me, definizioni del tutto obsolete, che continuano a dirci che noi viviamo nel posto più bello e più invidiabile del mondo e siamo i più fighi, mentre in realtà fuori a) succede un casino e b) ci guardano e ci fanno ciao con la mano mentre ci sorpassano.

Beh, penso sia chiaro (anche se non so a quanti) che per World Music si intenda un’etichetta di mercato, la “poppizzazione” di tutto quello che non viene dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna…

Io più altro contesto l’origine un po’ razzista del termine, nel senso “anglosassoni vs. resto del mondo”. Il resto del mondo è molto più grande. Però l’industria – di questo ne parlo anche nell’articolo – è in America e in Inghilterra, e in piccola parte altrove. Per cui mi sono chiesto: che peso ha l’industria in tutto questo? Gli Shark Move, gruppo rock psichedelico indonesiano, non li conosce nessuno perché facevano cagare o perché non c’era un’industria, e quindi anche un dominio culturale, dell’Indonesia sul resto del mondo? Sicuramente Chuck Berry era un mostro, come Bob Dylan è un grandissimo: non discuto di queste cose. Mi chiedo solo, ed è una domanda alla quale non ho risposta: uno qualsiasi di questi gruppi “periferici” era più bravo di un qualsiasi gruppo non di primissima schiera proveniente dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti, del quale comunque possediamo la discografia intera? E quanto pesa il fatto che in quell’industria ci fossero dei soldi da investire per far passare l’idea che il modello culturale buono, giusto, sul quale tarare tutto il resto, è il modello “occidentale” degli Stati Uniti?

Nonostante in questo caso parliamo di un immaginario culturale che si presumeva fosse “di sinistra”, internazionalista, come quello hippy/controculturale…

Esatto! Tra l’altro la cosa bella, e paradossale, è che una diffusione universale dei modelli culturali occidentali, spinta anche dai soldi e quindi, se vogliamo analizzarla adesso, anche parte di un piano di dominio culturale più vasto, fosse vissuta in simili paesi come la ribellione più totale contro regimi probabilmente liberticidi… O che, semplicemente, si erano accorti che questi modelli erano strumenti di dominio culturale, chi lo sa? Qualche tempo fa, su un atlante storico allegato al Manifesto, ho letto il direttore di Le Monde Diplomatique che raccontava di come alla fine della Seconda Guerra Mondiale i cittadini di Parigi, intervistati su chi avesse, secondo loro, liberato la città, avessero indicato al 70% l’Unione Sovietica e al 30% gli Stati Uniti. È stata posta la stessa domanda 40-45 anni dopo e stavolta le percentuali erano invertite. C’è poco da fare: in mezzo c’è stata Hollywood. È intervenuto qualcosa di molto ricco e di molto pesante a cambiare gli scenari – anche quelli dati per scontati, che poi sono i più pericolosi e i più importanti. Questo mi ha fatto pensare al peso che gli investimenti sull’industria culturale hanno avuto nel dopoguerra.

A tuo parere, ora che l’industria musicale sta morendo, questo peso cambierà?

Non so. Se non altro è tutto più difficile da controllare, perché un ragazzino di adesso ha tutti gli strumenti per bypassare completamente quotidiani e televisione. Detto questo, un certo genere di controllo e una certa spinta di modelli c’è anche sulla rete. Con la rete è più facile informarti per conto tuo, sempre che tu sia curioso (la curiosità in questi casi è tutto). Vivi in Italia, in un Paese “occidentale”, muore Chavez, vedi che il 99% degli articoli che leggi in Italia è puro folklore. Però dici “Voglio capire, voglio informarmi meglio: è veramente così, o magari se questa persona in tutta l’America Latina – e parliamo di centinaia di milioni di persone – è considerata poco meno che un dio una ragione c’è?”

Mi concentravo sulla musica perché secondo me l’industria musicale – le major – è stata una delle cinghie di trasmissione tra quel sistema politico e l’immaginario culturale. Ora che quelle vanno a cadere magari rimane iTunes che mette Rihanna nella home page. Però il volume di informazioni che circola attraverso quei canali è davvero così grosso da poter trascinare un sistema politico?

Non lo so. Penso di sì, ma – come ho detto – è anche più facile farsi un’opinione propria rispetto a una volta. Però penso che, in fin dei conti, i mezzi per far passare una determinata visione siano gli stessi. Fermo restando che, magari, se chiedevi a uno di questi gruppi africani degli anni Settanta, o a un loro fan, il loro sogno era andare a vivere a Los Angeles e fare le rockstar. Per cui non vorrei rendere tutti quegli artisti dei rivoluzionari e delle mine al sistema…

Questo ci porterebbe a un discorso complicatissimo… Comunque anche il consumo può essere ribellione…

Assolutamente. I boicottaggi ne sono l’esempio più lampante, ma anche il consumo di questo piuttosto che di quello può essere ribellione. Sono perfettamente d’accordo.

2.Punk

Volevo farti una domanda solo apparentemente distante da questo discorso, ma che si ricollega a quando parlavamo di processo vitale della musica, musica di comunità ecc. So che tu vieni dalla scena hc/punk. Quella scena è, per me, l’essenza di questi concetti: conoscersi, scriversi, partecipare della stessa “cosa”, e non semplicemente comprare i dischi e portarseli a casa. Ecco, io credo che essere dentro l’underground sia molto diverso dall’essere un collezionista, uno studioso, un archeologo di qualsiasi genere musicale. Ma adesso anche dentro la scena punk, persino quella degli anni Novanta di cui tu hai fatto parte, comincia a nascere il processo della nostalgia e della catalogazione. Tempo fa hai scritto “considero la nostalgia l’antitesi del punk”…

Da un lato rivendico il mio considerare tutt’ora la nostalgia nemica del punk – anche se molti farebbero fatica a vedere in me un punk, in questo momento. Io naturalmente continuo a considerarmi tale: il succo è proprio questo. Il punk deve per forza essere una cosa in evoluzione, per la sua stessa natura e per i suoi fondamenti ideali. Quando tu sei un punk, e sei esattamente come tua madre si immagina i punk, è segno che devi fare qualcos’altro. Ti dirò di più: quello che viene comunemente definito post-punk (i gruppi inglesi e newyorkesi di fine Settanta – inizio Ottanta), per me è il punk. Sono gli altri che sono rimasti fermi. Non è che nell’81 gli Sham 69 sono i veri punk e i Rip Rig + Panic post-punk; è esattamente il contrario. I Rip Rig + Panic sono punk e gli Sham 69 sono gente che è rimasta indietro a fare nostalgia. Questo non toglie che si possano fare delle ottime canzoni, dei bellissimi dischi, e che io possa andare al concerto e godermelo tranquillamente. La definizione di post-punk arriva evidentemente da un mondo della critica, dell’industria discografica che guarda le cose dal di fuori. Io, dal di dentro, sento di dire questo. Per me negli anni Novanta il punk erano ad esempio i Karate, più che il gruppo che suonava esattamente identico ad altre decine di gruppi prima di lui e che faceva già la nostalgia del punk di sette-otto anni prima. Questo era ovviamente il mio pensiero, e non coincideva con quello di tanti altri. Ne rivendico tutt’ora la validità, anche se ormai ho perso il contatto con quello che succede materialmente nel giro “punk”.

Altra cosa è la necessità di documentare. Tutti noi abbiamo cominciato ad appassionarci a queste cose anche grazie alla documentazione fatta da qualcun altro. La documentazione è necessaria, tanto più per un periodo come il punk degli anni ’90, del tutto fuori da ogni radar sotto ogni punto di vista – discografico, sociale, culturale. Non se lo ricorda più nessuno, non è praticamente successo niente. Chi guarda da fuori, poniamo un lettore di Rumore che segue l’underground musicale ma che non è un punk, sa che c’è stato l’hc italiano degli anni Ottanta, famoso in tutto il mondo, celebrato, Negazione, Wretched ecc. Sa che c’è stato il boom punk italiano conseguente al boom punk mondiale di Green Day e compagnia. Ma quel lettore non sa che negli anni Novanta succedeva una cosa che coinvolgeva forse poche persone, ma era un network molto forte, ed esprimeva gruppi a volte eccezionali. Io resto convinto che con l’industria dietro – e per industria intendo anche solo qualcuno che spinga un po’, non necessariamente una major – i Concrete a quest’ora suonerebbero su palchi enormi, per dire. La documentazione in questo senso è fondamentale, specie per un periodo che, se sotto certi aspetti è stato un’occasione persa, sotto altri è stato comunque molto fertile, perché ha portato una dispersione totale ma anche molto creativa. È un movimento da cui sono usciti uno dei più importanti artisti attuali, italiani e non solo, Nico Vascellari, e uno dei più importanti DJ electro/house al mondo, cioè Congorock, per dirne due.

Forse è un mio errore di percezione, ma non la penso come te su questo punto. Se guardo ai miei riferimenti, in rete e altrove, mi sento circondato da persone provenienti da quella scena. Su Rumore ci siete tu, Pecorari e Baronciani; leggo Bastonate, in cui spesso si parla di quella scena; oppure penso al boom dei Fine Before You Came e gruppi correlati. Come dicevi tu, un sacco di gente che in quel punk ha avuto un’educazione sentimentale, si è poi spostata altrove, mantenendo però dei collegamenti – forse non formali, ma sostanziali – col passato. In questo senso una certa nostalgia punk sta emergendo. Non parlo degli anni Ottanta, “i ragazzi del Mucchio”, “Love Hate 80” e cose simili, che ormai sono giunte a un livello di sacralizzazione estrema per cui chiunque è venuto dopo ne è praticamente schiacciato. Un certo “sconfittismo” nasce anche dal dialogo a distanza tra le voci che ho citato sopra – potrei parlare anche di Vice – e dà l’idea che dopo quell’ultima scena punk siano rimaste solo macerie. Cioè, il mio disco hc preferito dello scorso anno è stato quello dei Chambers, che però nascono dai Violent Breakfast, e quindi, in un certo senso, da dieci anni fa. O penso alla scena di FBYC, Verme, Gazebo Penguins: non si tratta esattamente di sedicenni che dovrebbero mandare affanculo la mamma. Vedi tutto questo come un pericolo? Quando la documentazione diventa autorità della nostalgia?

Ma questo genere di revival anni Novanta è comunque molto recente. Mi sento di dire che, se questa cosa riporterà in auge anche le pratiche di quegli anni, ben venga, soprattutto in una situazione – e questa è la differenza rispetto agli anni ’90 – in cui il mondo indie diciamo “ufficiale”, quello in cui si può fare, tra molte virgolette, successo, è vicino, è di fianco a te. Non come negli anni Novanta, quando quel mondo er Marlene, Afterhours, Consorzio: roba completamente fuori dalla tua portata. Se questo revival riporterà in auge una certa maniera di fare le cose, in un momento in cui è facili spacciarsi per paladini del punk e dell’underground puntando a poco più che il palco principale del Mi Ami il sabato sera, allora ben venga. Gruppi che reputano importante, se hanno 3000 euro in cassa, comprare un furgone piuttosto che fare un video: in tal caso sono del tutto favorevole. Se diventa invece un recupero estetico (e per estetico intendo suoni, testi, attitudine esteriore, grafiche…) allora può farmi piacere a livello immediato, perché mi dico “Ok, meglio un gruppo che recupera qualcosa che mi piace piuttosto che uno che recupera della merda”, ma di là in avanti mi sembra nostalgia come qualunque altra cosa.

Mi viene in mente anche che il contesto è cambiato. Non so quanto i semi del presente fossero già nei colpi di coda di quella scena – penso a un certo svilimento del diy, del tipo “hai una cosa a disposizione e la usi nel modo più narcisistico possibile (vedi il blogging). Non so se questo ripiego fosse già presente. Comunque secondo me a cambiare un po’ la situazione e renderla più “estetica” c’è il fatto che il do it yourself, l’underground sono diventate cose talmente facili…

Se vuoi, oggi è tutto diy. Puoi veramente fare tutto diy e farcela. Per cui, potenzialmente, è ancora meglio rispetto a quando facevamo noi le cose.

Per quello, secondo me, il “senso politico” è cambiato…

Su questo siamo d’accordo. A mio parere il “senso politico”, in Italia e non solo, manca praticamente ovunque. Trovo che negli ultimi vent’anni, tra i peggiori della nostra storia, anni in cui ci sarebbe stato moltissimo da raccontare volendo dare un senso politico alla propria arte, pochissimi l’abbiano fatto in maniera interessante. Anche se parlando di “senso politico” per questi gruppi ci riferiamo più alla pratica che ai testi. Secondo me, una delle ragioni del successo enorme del Teatro degli Orrori è questa: il fatto che, dopo anni in cui nessuno cantava una canzone che prendesse posizione, in cui nessuno s’incazzava per qualcosa, adesso qualcuno c’è. Poi ciascuno può pensare cosa vuole del Teatro degli Orrori, ma da anni si sentiva la mancanza in Italia di musica autenticamente politica.

3.Giornalismo.

Ti faccio un’ultima domanda, che riguarda il giornalismo. Non so se segui Bastonate, di cui noi siamo fondamentalmente un’imitazione scrausa (facciamo a casa nostra quello che loro fanno worldwide)…

Bastonate mi ha appena contattato, per farmi un’intervista di quelle che fanno loro ai giornalisti.

Li abbiamo battuti sul tempo. Bellissimo. Comunque, era di quello che volevo parlarti. Da quelle interviste, che per me sono più interessanti di molte interviste a gruppi, emerge una contrapposizione tra modelli di giornalismo musicale: come si racconta la musica? Bordone ha contrapposto il giornalismo alla Lester Bangs, “di pancia-fegato-rock’n’roll” a quello intellettualoide di Simon Reynolds – secondo me il bersaglio più sensato sarebbe lo scaruffismo…

Sì, oddio. Definire Scaruffi un intellettuale…

Parlo di un raccontare la musica come – e questo ci riporta al problema della catalogazione – appunto catalogo. Dare un genere alla musica, dire cos’è, qualcosa-core per esempio, in fin dei conti fraintenderne la portata sociale. La musica diventa una serie di “pietre miliari” che devi scaricare per capire cos’è stata la storia del rock.

È un argomento delicato, non c’è una risposta univoca. Io, tendenzialmente, sono più per l’istinto. Non amo generi e sottogeneri, e se mi chiedi di farti una storia del rock non so manco da dove cominciare. Riconosco però che si tratta di un approccio difficile da maneggiare, perché il rischio di finire in “rutti, scoregge, panini e vaffanculo” è molto alto. Per cui, piuttosto che fare una recensione così e sbracare fai una recensione in cui racconti il disco e magari tiri in ballo due nomi di paragone e due generi…

… Eviti gli aggettivi, che sono un cancro…

Eh, sì. Poi l’argomento recensioni è delicato, proprio perché è difficile farle. Il mio approccio è più tendente al primo, ma cerco sempre di metterci un pochino dell’altro. Se è un disco che mi ha proprio fatto schifo cerco sempre di spiegare di cosa si tratta, anche in termini analitici. Se vai a vedere le mie stroncature più feroci, vedrai che comunque ti sto dicendo che roba è, e perché secondo me è carente; poi se il genere ti piace puoi comunque ascoltarti il disco. Idem col disco che mi ha fatto impazzire: magari ci metto la retorica e i voli pindarici, ma cerco comunque di spiegare di cosa si tratti e perché mi stia facendo impazzire. Detto questo, a me l’analisi fredda fa un po’ dormire: ci sono tanti ottimi giornalisti di quel tipo, ma non trattandosi di giornalismo d’inchiesta e cose importanti preferisco chi ci mette un po’ di cuore. L’analisi di generi e sottogeneri in campo dance/elettronico è praticatissima e io mi ci perdo, arrivando da un altro mondo (ed è per questo che mi diverto a scrivere di dance ed elettronica: a volte mi sento l’ultimo arrivato, entrato dalla porta di servizio, che si è ritrovato in mezzo a un posto in cui nessuno lo conosce… “E questo chi cazzo è?” Ti dà un giudizio pulito sulle cose). Comunque sia, per quanto sia necessaria l’analisi, la storicizzazione, preferisco l’approccio di pancia. Anche perché spesso quelle che noi storicizziamo anni dopo come tendenze o scene, a meno che non abbiano una caratteristica locale, di stessa collocazione geografica, non sono viste come tali dai partecipanti. Se qualcuno arriva 40 anni dopo e mi dice “C’erano gruppi che facevano avant/psych tra il 77 e il 79” a me viene da dire “Chi se ne frega”. Non sono uno che guarda alla storia del rock come a un susseguirsi di tendenze, di scene e di generi. Che me ne frega della storia del rock, se in qualunque momento posso scoprire roba registrata 40 anni fa che non conoscevo e mi fa impazzire. Poi sì, in seguito può interessarmi leggere che si tratta del prodotto di un determinato ambiente culturale, di un determinato momento, ecc. Anch’io ho dei momenti della storia del rock e dei luoghi in cui mi sarebbe piaciuto essere, per esempio a Londra nel ’76, o a New York tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Però, se costretto a scegliere tra l’uno e l’altro, preferisco un approccio più personale. Anche perché essendomi trovato dall’altra parte, essendo stato un musicista (anche se con risultati non necessariamente degni della storia del rock), se qualcuno venisse a dirmi “Voi che negli anni Novanta eravate parte di questa scena”, io gli risponderei “Bah, noi suonavamo in un gruppo, facevamo quello che ci andava di fare. Vedi te se poi questa roba si intersecava con altra”. Non so se sto buttando merda sul mio mestiere, però m’interessa di meno. Anche perché adesso che metto giù con te mi ascolto un disco del ’71 che non ho mai ascoltato prima e per me quel disco è uscito oggi. Poi certo, vado a capire: “Cazzo, questa roba è uscita nel ’71 da quel posto, l’ha fatta quello che ha collaborato con quell’altro”, ed è interessantissimo: ti apre altre porte, altre direzioni. Però alla fine io l’ascolto oggi… Per cui, boh?



5 Responses to “Intervista ad Andrea Pomini”

  1. 1 kekko

    scolpire in the pietra.

  2. 2 gion

    ah! sull’ultimo pensiero aggiungerei anche una domanda sull’utilità delle classifiche di fine anno con i soli album usciti nell’anno preso in considerazione: non sarebbe meglio una classifica degli album ascoltati nell’anno ma indipendentemente dall’anno di uscita?

    • io la penso più o meno all’opposto: per me l’utilità delle classifiche di fine anno non è tanto sapere quanto il disco degli Swans sia stato apprezzato; io le vedo più come un modo per tenere il polso della musica nel presente – capire che aria tira, insomma. “raccontare” un anno di musica va da sé che spesso o le classifiche fanno male questo lavoro oppure tira proprio una brutta aria.


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